Cominciamo dalla fine. Nel 1999 il recente premio Nobel, Richard Thaler, intitolava un suo articolo The End of Behavioral Finance (“La fine della finanza comportamentale”), auspicando che un giorno non lontano si sarebbe smesso di parlare di finanza comportamentale. Non intendeva che non si sarebbe più utilizzato l’approccio comportamentale, ma che questo sarebbe diventato complementare a quello tradizionale, arrivando a integrare i due approcci e, dunque, a parlare solo di finanza, senza aggiungere gli aggettivi “comportamentale” o “tradizionale”. A distanza di quasi vent’anni, forse quel momento non è ancora arrivato, ma si sta andando in questa direzione.
Forse non è ancora giunta la “fine della finanza comportamentale”, ma penso che sia almeno arrivata “la fine dell’inizio” – parafrasando Churchill – cioè la fine della “finanza comportamentale 1.0”, cioè la prima generazione di studi comportamentali che come ho scritto nel primo articolo in gran parte si “limitava” – ma si badi, non sto minimizzando, è stata una rivoluzione! – a fare una lista degli errori più frequenti commessi dagli individui in ambito economico. Questi studi, anche se continuano a costituire la base della finanza comportamentale, sono “finiti” per due motivi.
Il primo è che si sta smettendo di considerare i bias comportamentali come “errori”. Inizialmente ci si riferiva ad essi come tali perché in contrasto con la tradizionale ipotesi di perfetta razionalità degli agenti della teoria economica neoclassica. Una razionalità economica però molto distante dal senso comune di razionalità. Il senso comune si rifà alla saggezza popolare, che a sua volta si basa sull’osservazione della realtà. E la realtà è che alcuni comportamenti ritenuti “economicamente” irrazionali, hanno invece assolutamente senso o, per dirle più tecnicamente, sono “ecologicamente razionali”. Le euristiche decisionali alla base dei bias, quelle “scorciatoie mentali” che ci portano a deviare dalla razionalità economica, si rivelano nella realtà soluzioni efficaci e dunque “razionali” nel senso “ecologico” del termine, come ci hanno insegnato Vernon Smith – che ha condiviso il Nobel nel 2002 con Kahneman – ma anche Gerg Gigerenzer, importante esponente della scuola comportamentale tedesca che asserisce che euristiche non solo sono soluzioni veloci e “frugali” (fast and frugal heuristics), ma anche estremamente efficaci in quasi tutti i campi d’indagine dell’economia (e non solo).
Il secondo motivo della “fine” della finanza comportamentale 1.0 è che finalmente si è passati a quella “2.0” che si propone di offrire soluzioni a quegli errori o comunque ai comportamenti se non irrazionali, almeno dannosi agli individui. Insieme al già citato Thaler, uno dei maggiori artefici di tale passaggio è certamente Shlomo Benartzi – economista comportamentale che insegna a UCLA – che ha sviluppato – e fatto in modo che venisse applicata – una delle soluzioni più efficaci ad un annoso problema presente in molti Stati moderni, quello legato alle scelte previdenziali degli individui. Secondo la teoria tradizionale, gli individui sono perfettamente in grado di pianificare il proprio futuro pensionistico, stimando non solo le proprie esigenze, ma anche i rendimenti dei loro investimenti. La realtà è ben diversa. Non solo le persone normali non hanno tali capacità di stima, ma non possiedono spesso l’auto-controllo necessario a risparmiare per la propria pensione, dovendo rinunciare (almeno in parte) al consumo odierno. Gli “errori” comportamentali poi hanno conseguenze molto negative in ambito previdenziale. Basti pensare alla cosiddetta “avversione miope alle perdite” che ci porta a investire troppo poco in azioni anche quando l’orizzonte temporale è molto lungo.
Dati alla mano, se si osservano le scelte previdenziali anche dei giovani si scopre che in gran parte questi investono prevalentemente in obbligazionario, non capendo che – almeno dati i bassi tassi di interesse attuali – rischiano di ottenere rendimenti troppo bassi per raggiungere i propri obiettivi pensionistici. Ciò da un lato è dovuto all’avversione alle perdite di breve periodo, che è appunto miope perché non considera invece l’orizzonte di investimento spesso pluri-decennale. Un altro motivo è legato alla contabilità mentale, cioè alla tendenza del nostro cervello a categorizzare in conti (o partizioni) mentali separate il denaro. Il “problema” è che a ogni conto mentale corrisponde una certa tolleranza al rischio che non è necessariamente correlata all’orizzonte temporale.
Per esempio, si immagini un trentenne che deve decidere come investire i soldi investiti in un piano di previdenza complementare. Pur avendo un orizzonte almeno trentennale, quelli sono i soldi per la “sua pensione”, per quando sarà vecchio, non potrà più contare sul suo stipendio, ma sulla sempre più misera pensione statale e su quanto accumulato in quella complementare. Il nostro cervello ci inganna perché ci fa associare al conto mentale “pensione” una tolleranza al rischio molto bassa – “voglio essere sicuro di avere i soldi quando sarò vecchio!” – e, di conseguenza, ci porta a investire in strumenti percepiti a basso rischio come le obbligazioni per soddisfare tale desiderio. Questo errato ragionamento ci porta a confondere l’obiettivo (la sicurezza) con il mezzo per raggiungerlo. Per avere la “sicurezza” di accantonare una cifra sufficiente per integrare la pensione statale occorre, avendo un orizzonte temporale lungo, investire una quota rilevante in azionario che offre nel lungo periodo rendimenti elevati, con un rischio di perdita limitato. Investendo in obbligazioni, invece, si ha l’unica certezza che il rendimento ottenuto non sarà sufficiente e, in questo momento, con una prospettiva di rialzo dei tassi di interesse, potrà addirittura portarci a perdere.
Ancora prima di sbagliare a investire il proprio risparmio pensionistico, spesso questo è troppo basso, se non addirittura inesistente. Proprio qui è arrivata l’idea geniale di Benartzi e Thaler. Ma per scoprirla dovrete aspettare il prossimo articolo!